Aspetti biochimici della biosintesi del R-fenilacetilcarbinolo

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ClaudioG.

2017-11-03 21:07

Dopo aver studiato e compreso insieme ogni aspetto, teorico e sperimentale, di questi esperimenti, il buon Ohilà mi ha affidato il compito di spiegare la meccanica biologica alla base della biosintesi del PAC dalla benzaldeide, che lui ha realizzato e illustrato qui:

http://www.myttex.net/forum/Thread-R-fenilacetilcarbinolo-L-PAC-Sintesi

Per non farlo in modo troppo banale, ho pensato che sarebbe stato necessario, prima di descrivere direttamente la via biochimica sfruttata, introdurre qualche concetto essenziale sugli enzimi, sul metabolismo anaerobio degli zuccheri e sulla fermentazione alcolica “canonica”. Cercherò di dar priorità alla coerenza piuttosto che al grado di approfondimento, per aumentare il quale rimando ai link e alle fonti che allegherò io e che ha già scritto Ohilà. Tralascerò anche le localizzazioni cellulari dei processi e la loro stechiometria esatta, inutili ai fini del post.

NB. Per vedere bene le immagini purtroppo bisogna aprirle.

1- Cenni svelti sulla catalisi enzimatica

È noto a tutti gli studenti di liceo che gli enzimi sono catalizzatori biologici: si tratta di proteine (nonostante vi siano eccezioni non totalmente proteiche come i ribozimi) che hanno delle caratteristiche tali da velocizzare enormemente delle reazioni chimiche la cui cinetica sarebbe estremamente sfavorita (si può quasi dire che non avverrebbero per nulla) nelle condizioni cellulari. Come delle mani sapienti, gli enzimi accolgono le molecole reagenti (dette substrati) in loro regioni specifiche (dette siti attivi), le orientano e ne sostengono in vari modi i riarrangiamenti elettronici che permettono di convertirli nei prodotti. Fatto il prodotto, esso viene rilasciato e l’enzima è di nuovo pronto ad accogliere un’altra molecola di substrato. Chiedersi ora come ciò avvenga è inutile: bisogna davvero vedere caso per caso. Il meccanismo di catalisi che vedremo più avanti sarà rappresentativo della complessità globale delle meccaniche enzimatiche.

È necessario dire che praticamente ogni reazione chimica nel corpo è catalizzata da enzimi, e che tutti gli enzimi sono prodotti dalle cellule a partire dall’informazione contenuta nel DNA del nostro genoma. Il genoma di tutte le cellule dello stesso organismo è identico, ma è ovvio che cellule di tessuti differenti (o a differenti stati funzionali) hanno bisogno di produrre corredi proteici (e quindi anche enzimatici) differenti. Per far questo intervengono complessi meccanismi regolativi, che fanno “accendere” in modo molto esatto geni specifici per produrre proteine (ed enzimi) specifici. Ovviamente anche organismi differenti avranno corredi genetici diversi e quindi corredi proteici (ed enzimatici) peculiari. Questo ci interessa, perché le reazioni che vedremo più avanti sono specie-specifiche, perché solo alcune specie possono produrre e producono tutte le serie di enzimi necessari a condurle.

Tornando al funzionamento degli enzimi, occorre dire che sono molto specifici: il substrato a cui si legano deve avere una struttura molto ben determinata, perché il sito attivo ha una morfologia tale da adattarsi in modo perfetto, morfologicamente, dimensionalmente e chimicamente parlando, al substrato. Nel sito attivo si crea una sorta di microambiente che ospita con estrema accoglienza le molecole da far reagire, e ciò avviene perché in tale regione sono esposti residui amminoacidici e gruppi funzionali che sequestrano e stabilizzano il substrato, gli intermedi di reazione e i prodotti. Addirittura il legame sito attivo-substrato è stereospecifico, e questo è di importanza essenziale per il mantenimento dell’ordine interno tipico della biologia (è anche alla base della enantioselettività della reazione di Ohilà).

Ma non bisogna ora pensare che gli enzimi sono delle macchine industriali che convertono ciecamente il reagente in prodotto con resa quantitativa: il loro funzionamento segue infatti leggi cinetiche ben precise, ma parlare qui della cinetica di Michaelis-Menten è inutile e superfluo. Basti considerare che la loro velocità di catalisi varia al variare della concentrazione del substrato e delle condizioni di reazione, e che è limitata. Bisogna anche considerare la reversibilità di molte catalisi, che conduce alla cellula dei vantaggi importanti di economia domestica: lo stesso enzima che fornisce C a partire da A+B molto spesso, in certe condizioni (volendo anche in linea col banale principio di Le Chatelier) può restituire A+B da C, dimezzando quindi il set enzimatico che presiede quella reazione di equilibrio.

Infine, bisogna assolutamente dire che la stragrande maggioranza degli enzimi necessita per funzionare di cofattori. Si tratta di ioni metallici (di Zn, Fe, Mg, etc.) o di molecole organiche (dette coenzimi) che si legano permanentemente (in tal caso si preferisce parlare di gruppi prostetici) o transitoriamente all’enzima nudo (detto apoenzima), a formare l’enzima cataliticamente attivo (oloenzima). Il numero di cofattori naturali è molto limitato: assolutamente non paragonabile al numero di enzimi conosciuti. 

Nella piruvato decarbossilasi (l’enzima che, vedremo, conduce la reazione di Ohilà) ci sono i cofattori Mg++ e tiamina pirofosfato, entrambi indispensabili al meccanismo catalitico. 

Un altro importante cofattore che nomineremo è il NAD: il nicotinammide adenina dinucleotide. Si tratta di un trasportatore di elettroni, che può essere ridotto (si parla di NADH + H+) con ossidazione del substrato, e successivamente ossidato (si parla di NAD+) con riduzione del substrato. Il NAD è di primaria importanza in moltissime vie metaboliche che necessitino dei carrier elettronici.

Per definire meglio la vaga idea che si ha spesso della complessità della biochimica è bene esplorare il “mappamondo metabolico” per eccellenza: le mappe delle metabolic pathways della Roche. Basta cliccare "Explore the pathways" e si aprirà la pagina con il labirinto di moltissime vie metaboliche, non solo umane, con gli enzimi che le svolgono.

2- Catabolismo del glucosio e fermentazione alcolica

Dato che la metodica di Ohilà prevede lo sfruttamento di una reazione catalizzata da un’enzima di fermentazione e il controllo di alcune reazioni secondarie coinvolte nel metabolismo del glucosio e del piruvato occorre avere una panoramica generale del catabolismo anaerobico dei glucidi.

Consideriamo l’essere umano e proviamo a semplificare al massimo. Abbiamo bisogno di energia, e la otteniamo dalla rottura dei legami ad alta energia contenuti nelle molecole organiche che ricaviamo dal cibo. Mangiamo la carbonara, l’apparato digerente la trasforma in una miscela complessa di biomolecole, tra le quali prevale il glucosio proveniente dall’amido dei fusilli (o delle penne, ma io direi meglio i fusilli).

Il glucosio viene importato nelle cellule dell’epitelio intestinale, e inizia ad essere processato in una serie di reazioni chiamata glicolisi (o via di EMP, dagli scopritori). Sebbene siano molto interessanti tralasciamo i singoli passaggi di questa via: basti sapere che da una molecola di glucosio se ne ottengono, tramite dieci reazioni successive (ciascuna catalizzata da un enzima diverso) 2 di piruvato (acido 2-ossopropanoico), 2 di ATP (adenosina trifosfato, la molecola che immagazzina l’energia per spenderla altrove) e 1 di NAD ridotto (NADH + H+). Nella glicolisi si libera, quindi, un po’ di energia spendibile, ma molto poca. Di seguito lo schema semplificato del processo:

glicolisi.png
glicolisi.png

Ora, il piruvato è ulteriormente degradabile: in condizioni di non eccessivo sforzo fisico, riusciamo ad ossidarlo del tutto, nel corso di più fasi sequenziali e connesse (decarbossilazione ossidativa del piruvato, poi ciclo di Krebs e infine la fosforilazione ossidativa), in acqua e anidride carbonica, consumando ossigeno e producendo stavolta moltissima energia (si parla ora di 30 ATP, a fronte delle 2 dalla glicolisi). Il destino usuale del glucosio è quindi l’esser degradato a dare moltissima energia, e ciò avviene sempre in quasi tutte le nostre cellule.

Però…sappiamo benissimo che con sforzi fisici intensi inizia a prodursi acido lattico nei muscoli, lo dice ogni insegnante di educazione fisica (dicono anche che il dolore che sentiamo nello sforzo è dovuto al suo accumulo, ma non è vero asd). Ma perché? Perché non c’è ossigeno sufficiente per portare a completamento l’ossidazione del glucosio: degradarlo tutto ad anidride carbonica e acqua risulta impossibile se non c’è ossigeno da ridurre. Dunque le cellule muscolari (che sono naturalmente quelle più coinvolte nello sforzo) devono dirottare il piruvato (notare che nella glicolisi non si consuma ossigeno, quindi fino al piruvato ci arriviamo tranquilli) verso una via anaerobica, la fermentazione lattica, che purtroppo non fornisce energia ma è indispensabile per rigenerare NAD+ a partire dal NADH + H+ che si era prodotto nella glicolisi. 

E questa riossidazione di NADH è ovviamente necessaria per evitare accumulo di NAD ridotto e per rifornire la glicolisi di NAD fresco da ridurre. Per rigenerare il trasportatore di elettroni un enzima, la lattato deidrogenasi, converte il piruvato in acido lattico (il quale poi verrà smaltito nel fegato…). A noi però non interessa la fermentazione lattica, che qui ho descritto solo per relazionare le due strade alternative, aerobiche e anaerobiche, che il piruvato può imboccare nel nostro corpo.

Spostiamoci ora al lievito del buon Ohilà che è il Saccharomyces cerevisiae, il lievito di birra. È facile vederlo al microscopio, è un fungo unicellulare anaerobio facoltativo. Significa che sono tutte cellule singole le quali, immerse in una soluzione più o meno ossigenata, possono dirottare o meno il piruvato verso la fermentazione o verso le vie aerobiche. La fermentazione nel lievito di birra è di tipo alcolico, e prevede la conversione ultima del piruvato in alcol etilico. 

Ho provato a fare uno schema molto generale, nel quale si comprende la dinamica globale delle vie aerobiche e anaerobiche di un fermentante alcolico come il lievito. Il riquadro grande contiene quelle vie aerobiche di cui parlavo sopra (decarbossilazione ossidativa, Krebs, fosforilazione -lì abbreviata con OXPHOS-) che a noi non interessano, mentre quello piccolo in rilievo riassume il destino del piruvato in anaerobiosi.

Schema generale catab glu.png
Schema generale catab glu.png

Di seguito, invece, lo schema più dettagliato della fermentazione alcolica e i suoi passaggi:

sch.png
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1) Il piruvato (che, , ha 3 atomi di carbonio) viene convertito in acetaldeide (2C) da parte della piruvato decarbossilasi, con produzione di una molecola di CO2.

2) L’acetaldeide viene ridotta ad alcol etilico grazie al potere riducente del NADH proveniente dalla glicolisi, che si ossida a sua volta a NAD+ (carburante riducibile per glicolisi). La reazione è catalizzata dall’alcol deidrogenasi (una delle tante, ce ne sono di vari tipi).

Nell’uomo la fermentazione alcolica non avviene (anzi, diciamo qui che una alcol deidrogenasi umana epatica fa il processo inverso, cioè converte l’alcol che beviamo in acetaldeide, la quale poi diventerà acido acetico), ma abbiamo imparato a sfruttare ampiamente quella del lievito per i nostri fini. Birre, vini e panificazioni sono tutte cose condotte da sempre impiegando biotecnologicamente il lievito di birra (ma non solo): le bollicine della birra e l’aumento di massa nella lievitazione degli impasti sono il risultato della liberazione di CO2 dalla piruvato decarbossilasi, enzima di cui ora approfondiamo alcuni aspetti.

3- Piruvato decarbossilasi, struttura e meccanismo

La piruvato decarbossilasi è un enzima cruciale nella biochimica delle fermentazioni e non va confusa né con la piruvato deidrogenasi né con la piruvato carbossilasi. Consiste di due coppie di subunità proteiche (cioè un paio di dimeri), unite a formare una struttura a quattro subunità (un tetramero).

Di seguito la struttura, ottenuta per cristallografia a raggi X, dell’enzima. L’ho scaricata dal PDB, il database delle strutture proteiche, e ho modificato i colori per evidenziare i due dimeri (uno ha una subunità rossa e una arancione, l'altro una blu e una celeste).

PDC pronta-min.png
PDC pronta-min.png

Alle interfacce tra le due subunità di ciascuna coppia di dimeri vi sono due siti attivi (quindi quattro nell’enzima in totale), che ospitano ciascuno i cofattori tiamina pirofosfato (TPP) e Mg2+. Di seguito la struttura della TPP: si tratta di tiamina (vitamina B1, essenzialmente un anello pirimidinico e uno tiazolico legati) al cui quinto carbonio tiazolico sono coniugati due gruppi fosfato.

schtpp.png
schtpp.png

Nei quattro siti attivi della piruvato decarbossilasi, quindi, è presente la TPP, coordinata strutturalmente alla sequenza amminoacidica dei siti grazie allo ione magnesio.

Bisogna ora dire che questo enzima presenta un ulteriore sito, regolativo e non catalitico, posto vicino a ogni sito attivo. Nel sito regolativo vi sono dei residui di istidina (His, ha un anello imidazolico) e di cisteina (Cys, un amminoacido solforato) che accolgono il piruvato e di conseguenza inducono un cambiamento conformazionale e l’attivazione dell’enzima. Ciò porta il piruvato a spostarsi nel sito propriamente catalitico, nel quale poi la TPP lo trasformerà in acetaldeide. Questo primo contatto tra il sito regolativo e il piruvato consente di impedire che l’enzima sia occupato indebitamente da molecole che non siano, appunto, piruvato: è un modo importante per garantire la specificità di substrato

Di seguito a sinistra ho rimosso, dalla panoramica precedente dell’enzima, la massa peptidica di sostegno del dimero di sinistra, lasciando visibili il sito catalitico (TPP, magnesio e i residui a cui essi sono legati) e il sito regolativo (piruvato e istidine-cisteina di legame al piruvato). A destra, invece, ho rimosso anche i residui amminoacidici per mostrare le posizioni relative di TPP e piruvato.

PDC siti catalitici e regolativi.png
PDC siti catalitici e regolativi.png
 
PDC ligandi.png
PDC ligandi.png

Le due immagini seguenti sono ingrandimenti delle precedenti, che mostrano etichettati gli attori del processo enzimatico, a sinistra legati ai rispettivi residui amminoacidici, a destra belli nudi come li conoscono i chimici organici. Notare, a sinistra, come lo ione magnesio medi l’associazione della TPP allo scheletro proteico.

PDC siti catalitici e regolativi dettaglio.png
PDC siti catalitici e regolativi dettaglio.png
 
PDC ligandi dettaglio.png
PDC ligandi dettaglio.png

Riusciamo ora ad immaginare, a grandissime linee, quanto sia critico il microambiente di catalisi di ogni enzima: tutto un intricato e perfetto incastro tra l’impalcatura peptidica e i cofattori e gli amminoacidi direttamente implicati nel meccanismo. Allora vediamolo, questo meccanismo della decarbossilasi. Di seguito l’ho ridisegnato a partire da un’immagine del Lehninger, ma è comune trovarlo su ogni buon libro di biochimica.

schTPP meccanismo.png
schTPP meccanismo.png

A prescindere dalle singole tappe che adesso descriviamo, richiamiamo bene a mente reagenti e prodotti del processo: da una molecola di piruvato si devono ottenere una molecola di anidride carbonica e una di acetaldeide. In sostanza, deve rompersi il legame tra il carbonio carbossilico e quello carbonilico del piruvato per restituire dalla porzione carbossilica l’anidride carbonica e da quella carbonilica l’acetaldeide per formazione di un nuovo legame C-H.

Ad operare il meccanismo è l’anello tiazolico della tiamina nella TPP, che si modifica durante il processo ma che nell’ultimo stadio torna ad essere il classico tiazolo iniziale. Nello schema, per semplicità, il pirofosfato è indicato con R’ e l’anello pirimidinico della TPP con R.

Nota: un chimico non deve stupirsi di quanto sembrino magici e improbabili i riarrangiamenti elettronici e atomici che seguono, perché tutto quel che avviene è sostenuto dalle “spintarelle” chimiche dei residui amminoacidici presenti sul sito attivo e qui non mostrati.

Step 1: Il C2 del tiazolo (quello tra azoto e zolfo) viene deprotonato, a dare un carbanione (carbanione TPP);

Step 2: Il carbanione TPP fa attacco nucleofilo al carbonile del piruvato e si ha protonazione dell’ossigeno carbonilico. Ora il piruvato è diventato un intermedio lattato-TPP (il lattato è 2-idrossipropanoato);

Step 3: Il doppietto dell’ossigeno carbossilico riarrangia a formare un doppio legame, e gli elettroni del legame C carbossilico-C alcolico si spostano a dare un doppio legame tra il C alcolico e il C tiazolico. Si ha quindi, al contempo, liberazione di anidride carbonica e formazione di un intermedio alcolico coniugato con doppio legame al tiazolo. È questo un aspetto interessante del meccanismo: l’anello tiazolico così legato infatti è stabilizzato per risonanza, e ciò favorisce molto la decarbossilazione (il tiazolo è infatti chiamato “trappola per elettroni”). Questa risonanza va tenuta bene a mente, perché sarà importante in seguito parlando del PAC.

Step 4: l’altro intermedio di risonanza, un carbanione, viene protonato. Si forma idrossietil-TPP, cioè TPP legato a un gruppo idrossietile;

 

Step 5: L’idrossietile è chiamato anche “acetaldeide attivata”, perché è sufficiente un rapido riarrangiamento concertato, cioè la deprotonazione dell’ossidrile e la rottura del legame che teneva insieme idrossietile e tiazolo, per restituire acetaldeide e il carbanione TPP che si era formato nel primo step. L’acetaldeide viene quindi espulsa dal sito attivo, mentre il carbanione TPP subisce il primo step invertito: viene protonato a formare TPP, pronta per un nuovo ciclo catalitico.

 

4- Biochimica della biosintesi del L-PAC

Abbiamo parlato finora dell’enzima che il lievito usa per produrre acetaldeide dal piruvato, ma nessuna delle due sostanze compare nella lista di reagenti nel protocollo di Ohilà. Lui non ha prodotto acetaldeide, ma fenilacetilcarbinolo. E non ha messo piruvato nel bibitone del lievito, ma benzaldeide. Però la biochimica ci dice che ad aver prodotto il PAC è la piruvato decarbosssilasi. Vediamo cosa accade.

 

Abbiamo detto che la piruvato decarbossilasi possiede specificità di substrato, cioè il piruvato, e catalizza la decarbossilazione irreversibile di esso. In effetti nel becher di Ohilà il saccaromicete ha importato il glucosio (glucosio proveniente dalla melassa di banane) e lo ha trasformato in piruvato per via glicolitica. Mancando di ossigeno per degradarlo nelle vie aerobiche, ha dirottato il piruvato alla fermentazione alcolica, e il nostro enzima ha iniziato a convertirlo. 

Torniamo al meccanismo detto sopra: nel primo stadio otteniamo il carbanione TPP, il piruvato reagisce con esso nel secondo stadio, si ha la decarbossilazione nel terzo stadio con produzione dell’intermedio di risonanza. Fin qui il lievito fa la sua usuale decarbossilazione.

In presenza di benzaldeide, però, c’è una deviazione anomala di due passaggi successivi del ciclo catalitico. Ha infatti luogo una condensazione aciloinica (il PAC è una aciloina). Si ha che il C negativo del carbanione risonante, invece di essere protonato attacca il carbonile della benzaldeide, a formare un idrossietil-TPP modificato nel quale l’idrogeno sul carbonio alcolico è sostituito dal gruppo idrossibenzilico (step 4bis nello schema di seguito). 

In seguito (step 5bis) si ha un riarrangiamento elettronico come nello step 5, ma stavolta con eliminazione, finalmente, del PAC. È così rigenerato il carbanione TPP, che ricomincia il ciclo. Non ho indicato la chiralità del prodotto finale, ma occorre dire che la reazione è enantioselettiva e che si forma solo l’isomero R del fenilacetilcarbinolo (simpaticamente chiamato L-PAC da non so chi o per quale errore storico).

schMeccanismo PAC.png
schMeccanismo PAC.png

È così che, in sostanza, Ohilà ha ottenuto il PAC dalla benzaldeide. Consideriamo ora sveltamente alcuni aspetti tecnici e collaterali della sintesi biocatalizzata.

Di passaggio, notiamo che Ohilà ha aggiunto dell’attivante per lievito, e notiamo che contiene tiamina. In base a quanto detto sulla piruvato decarbossilasi possiamo ben dedurre la destinazione di quella vitamina. Allo stesso modo si comprende facilmente la funzione del solfato di magnesio come additivo. Sia tiamina che magnesio servono al lievito come cofattori della decarbossilasi. 

Sulla funzione dello zucchero dovremmo avere le idee chiare: da esso il lievito ottiene il piruvato da convertire nel nostro prodotto.

Alcuni metodi prevedono l’areazione della miscela verso la fine del processo, ma né io né Ohilà ne comprendiamo il motivo. In realtà stiamo progettando altre prove e stiamo ancora studiando a proposito. Diverso è il discorso per l’aggiunta tardiva di benzaldeide: è necessario infatti, prima di addizionarla alla miscela, far accrescere la coltura a regime nutritivo, in modo sia da avere un alto numero di cellule operanti la fermentazione sia da consentire un buon accumulo di piruvato. Quest’ultimo sarà subito disponibile per la condensazione con la benzaldeide non appena la si aggiunge. A rafforzare la necessità di questa aggiunta tardiva è la tossicità della benzaldeide, di cui Ohilà ha parlato: essa nuoce alla vitalità del lievito, con danno proporzionale alla concentrazione. Da notare che sono stati selezionati dei mutanti di Saccharomyces resistenti alla benzaldeide (vedi articoli in link).

Accenniamo rapidamente alle vie secondarie coinvolte nella nostra biosintesi.

a) Sottoprodotti di riduzione 

Ricordiamo che il lievito non fa queste reazioni per divertimento: il fine ultimo delle fermentazioni è quello di rigenerare NAD+ per rifornire la glicolisi. Ricordiamo anche che nella fermentazione alcolica questa ossidazione è operata dall’alcol deidrogenasi del secondo stadio della fermentazione, nel quale l’acetaldeide viene convertita ad alcol etilico. Evitiamo di parlare dell’alcol deidrogenasi di lievito con lo stesso dettaglio della piruvato decarbossilasi, ma diciamo semplicemente che è un enzima molto più “tollerante” nella specificità di substrato: molte aldeidi (e anche chetoni) differenti possono essere ridotte ad altrettanti alcoli.

Sulla base di ciò individuiamo due vie importanti che ci conducono a sottoprodotti indesiderati, entrambe catalizzate dall’alcol deidrogenasi: la riduzione della benzaldeide ad alcol benzilico e quella del PAC a 1-fenil-1,2-propandiolo. L’aggiunta dell’etanolo alla miscela di fermentazione avrebbe lo scopo di spostare l’equilibrio di catalisi dell’alcol deidrogenasi verso la forma carbonilica. Analogamente, aggiungere acetone permette di aumentare la resa perché esso reagisce, si dice, da accettore competitivo di idrogeno: il NADH riduce l’acetone al posto di altri carbonili. Altri metodi prevedono anche l’aggiunta diretta di acetaldeide, con la stessa funzione e buoni risultati. Questi carbonili competitivi permettono di sottrarre la benzaldeide alla riduzione per indirizzarla con più efficienza alla condensazione con l’acetaldeide, e di ridurre inoltre le molecole di PAC ridotte a 1-fenil-1,2-propandiolo, un sottoprodotto fastidioso da eliminare.

b) Sottoprodotti di ossidazione

La benzaldeide può essere ossidata con facilità ad acido benzoico, lo sappiamo tutti. Anche nel lievito questa reazione avviene, ed è corresponsabile dell’impurezza del prodotto finale, sebbene il benzoico sia separabile senza troppe difficoltà dal resto.

Consideriamo ora (ma questo c’entra poco con il nostro lavoro) un lievito “a digiuno”, privato per un po’ di ore di nutrienti. Giusto per curiosità, aggiungiamo L-PAC e vediamo che il lievito è capace di ossidarlo ad acido benzoico e 1-fenil-1-metiletandiolo. Il processamento ulteriore di queste sostanze farà recuperare quel tanto di energia vitale che occorre al lievito per sopravvivere. Ciò è indicativo della complessità dello scenario metabolico della cellula, e dell’adattabilità di questa a condizioni disastrose come l’assenza totale di nutrienti tipici.

Conclusioni

In tutta sincerità, non è stato banale trovare informazioni dettagliate su vie metaboliche così anomale, e ciò ha impedito di approfondire come avrei voluto alcune questioni accessorie ma interessanti. In moltissimi articoli consultati gli aspetti meccanicistici sono molto trascurati, a vantaggio delle indicazioni sui metodi per migliorare le rese e le purificazioni. In ogni caso l'avanzamento degli esperimenti di Ohilà sulla separazione del PAC, la purificazione e l'affinamento della resa, richiederanno da parte di entrambi alcuni approfondimenti ulteriori. Specifico infine che tutto quello qui scritto è valido anche per altri microrganismi, meno utilizzati e conosciuti, tra i quali vi sono anche batteri e muffe.

Fonti

I principi di biochimica di Lehninger, Nelson-Cox, Zanichelli

Fondamenti di biochimica, Voet, Zanichelli

Vari articoli e siti internet:

Generalità

https://www.princeton.edu/chemistry/macmillan/group-meetings/AN_NHC.pdfMeccanismi

https://chem.libretexts.org/Textbook_Maps/Organic_Chemistry_Textbook_Maps/Map%3A_Organic_Chemistry_(Bruice)/25%3A_Compounds_Derived_from_Vitamins/25.3____Thiamine_Pyrophosphate%3A_Vitamin_B1Meccanismi 2

http://sci-hub.cc/http://onlinelibrary.wiley.com/doi/10.1002/bit.10117/epdf?r3_referer=wol&tracking_action=preview_click&show_checkout=1&purchase_referrer=www.google.it&purchase_site_license=LICENSE_DENIED_NO_CUSTOMERSintesi chimica

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Beefcotto87

2017-11-06 16:34

Un lavoro enorme, quello di darsi alla Biochimica ;-) Ed anche complesso!

I seguenti utenti ringraziano Beefcotto87 per questo messaggio: ClaudioG.